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  17/04/2014 19:38


Terni: celebrazione della messa in Coena Domini e lavanda dei piedi. Mons. Vecchi: "Un gruppo di persone, che si radunano attorno a una mensa, esprimono sempre, almeno implicitamente, una volontà di comunione, un desiderio di tranquilla amicizia, una ricerca di serenità e di concordia".



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Nella cattedrale di Terni, giovedì santo 17 aprile, il vescovo Ernesto Vecchi ha presieduto la celebrazione in “Coena Domini” in cui si ricorda l’istituzione dell’Eucaristia da parte di Gesù nell’ultima cena, nel corso della quale ha ripetuto il gesto della lavanda dei piedi a 12 uomini, in rappresentanza del mondo del lavoro, operai, cassaintegrati e lavoratori delle cooperative sociali. Una celebrazione all’insegna della comunione e solidarietà manifestata nel significato profondo della memoria dell’ultima cena.

“Con questa celebrazione vespertina, comincia il Triduo pasquale – ha detto il vescovo nell’omelia - si prolunga per tre giorni, ma è una sola grande festa. È una festa che sta al cuore dell’anno cristiano, perché gli avvenimenti rievocati in questi tre giorni costituiscono il cuore di tutta la storia È la solennità del nostro riscatto, del rinnovamento del mondo, del Paradiso riconquistato. È il poema mirabile della misericordia del Padre; poema unico e semplice, ma dovizioso ed esuberante nelle sue molteplici manifestazioni d’amore, che noi in questi giorni andremo successivamente svolgendo, per assaporarlo nei suoi diversi momenti e nella sua varia ricchezza. Questa Messa porta nei libri liturgici l’antica denominazione: «in cena Domini». È la Messa «nella cena del Signore». Da un banchetto appunto il nostro Salvatore ha voluto iniziare l’azione decisiva della nostra redenzione. C’è qui il positivo riconoscimento di una realtà consueta e preziosa, com’è, nella vita umana, una tavola imbandita. Un gruppo di persone, che si radunano attorno a una mensa, esprimono sempre, almeno implicitamente, una volontà di comunione, un desiderio di tranquilla amicizia, una ricerca di serenità e di concordia. Il cibo e la bevanda presi insieme sono sempre stati per gli uomini segno di connessione sociale, garanzia di solidarietà, testimonianza di pace. È dunque grande il valore umano del pranzo, e Gesù lo ha sottolineato, accettando spesso gli inviti che gli venivano rivolti e facendo dell’esperienza conviviale lo spunto per qualcuna delle sue più suggestive parabole. Quando arriva l’ora della sua Pasqua – l’ora cioè di passare da questo mondo al Padre, per la nostra redenzione – egli prende questa significante e umanissima realtà del banchetto e la carica di una grazia inaudita. Il suo banchetto non è più solo un segno, diventa un segno efficace, cioè un sacramento. Così nasce l’Eucaristia, tesoro divino che viene per sempre messo a nostra disposizione. L’Eucarestia ci è data come dono di un amore – che questa sera viene esplicitato nel rito della lavanda dei piedi - e che arriva al massimo dell’intensità. Ci è data perché significhi e operi la vita di incorporazione che fa di noi una sola cosa con Cristo; perché significhi e operi la benevolenza che deve unirci tra noi; perché significhi e operi nel mondo il prodigio inesauribile della Chiesa. Inoltre, mediante l’Eucarestia, la realtà umile e quotidiana della Messa acquista anche una valenza escatologica, cioè tocca gli ultimi tempi e va oltre il tempo e per questo diventa figura e anticipazione del Regno dei cieli. Per questo siamo esortati a compiere il rito eucaristico, senza interruzione, «fino a che egli venga», come ci dice san Paolo (1 Cor 11,26); cioè fino a che l’ultima venuta di Cristo, alla fine dei secoli, innesterà, in modo definitivo, la precarietà del nostro tempo nell’eternità dove, l’economia sacramentale lascerà il posto alla diretta visione beatifica di Dio nella sua gloria. La sera prima della Passione è stata il momento del più grande dono d’amore ma anche del tradimento. Non riusciremmo a cogliere tutto lo spessore del Giovedì Santo, se ci dimenticassimo di quest’ombra inspiegabile e tragica che incombe sull’ultima cena del Signore. San Paolo nel suo racconto annota con cura che il grande regalo dell’Eucaristia è stato fatto da Gesù proprio «nella notte in cui venne tradito» (1 Cor 11,23).  Qui c’è per noi un richiamo serio e forte: questa è una storia d’amore, è una vicenda drammatica, che ci costringe a rievocare, insieme con la generosità del Signore, la tremenda possibilità dell’uomo di respingere il suo Creatore. Originariamente la parola «tradire» vuol dire consegnare. Gesù si è lasciato consegnare ai suoi nemici, e ha voluto così patire – tra tutte le sofferenze – anche quella amara e pungente dell’ingratitudine e dell’infedeltà, inspiegabile risposta dell’uomo alla sua iniziativa d’amore. Dobbiamo sempre temere di noi stessi, e, se ci sforziamo di voler bene al Signore, non dobbiamo mai tralasciare di pregare con trepidazione, perché ci sia concessa sino alla fine dei nostri giorni la grazia della perseveranza e di un cuore riconoscente. Ma nello stesso momento in cui veniva consegnato ai suoi nemici, Gesù si consegnava anche ai suoi amici, si consegnava anche a noi, perché ogni giusta diffidenza verso noi stessi si rasserenasse nella certa persuasione dell’invincibile sua volontà di tenerci saldamente nel suo possesso e nella sua comunione. Nonostante la nostra debolezza, nonostante la nostra pericolosissima volubilità, noi siamo e restiamo di Cristo, come Cristo è di Dio: così ci dice il cibo eucaristico di cui ci nutriamo.

Quella sera di giovedì a Gerusalemme, nello stesso cenacolo, alla stessa mensa, si affrontarono l’amore di Dio e il tradimento dell’uomo. Ma vinse l’amore, così ci insegna l’Eucaristia. Il buio era sceso, e il principe delle tenebre già si era posto all’opera. Ma nell’Eucaristia Dio si è così avvicinato all’uomo, che da allora nessuno più deve sentirsi solo e abbandonato di fronte alle forze del male. Mai come nel Giovedì Santo abbiamo la confortante sicurezza che il Signore è davvero con noi”.




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