Francesco il ribelle. Il linguaggio, i gesti e i luoghi di un uomo che ha
segnato il corso della storia. Mi sono chiesto anch’io, come tanti, il significato di un
altro libro, nella già vastissima bibliografia su san Francesco; se lo è
chiesto pure il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, che firma la
prefazione. «La risposta» scrive il cardinale Parolin «è che questo
lavoro di Enzo Fortunato ha una sua caratterizzazione specifica. Si potrebbe
dire che si tratta di una lettura ecclesiale del santo di Assisi. Perché non
c’è dubbio sul fatto che Francesco sia anzitutto un uomo di Chiesa, fedele al
Papa, e che la Chiesa cattolica si misuri costantemente con l’eredità
evangelica del Santo di Assisi». Un confronto più che mai vivo oggi che un Papa ha assunto
consapevolmente, e coraggiosamente, di assumere il nome di Francesco, «mentre
la Chiesa cerca ogni giorno di compiere quel cammino “in uscita”» chiestole
appunto da questo Papa. Il libro spiega la natura della “ribellione” di san Francesco, che consiste nella stessa obbedienza. Tutto sta nel capire l’esatta portata dei termini. Ribellione
e obbedienza: è lo stesso paradosso che incarna Gesù Cristo, quando tiene testa
ai benpensanti, i burocrati della gerarchia e della élite di allora, per
obbedire alla Legge del Padre suo: non per far legge per conto proprio o per
fondare una casta o una setta o un partito (neppure un ordine religioso, nel
caso di Francesco, ma solo una fraternità!), perché «neppure uno iota della
Legge vada perduto». Come quello di Gesù Cristo, «il sogno di Francesco è
insieme il sogno di una modernità nel
segno del Vangelo». Una modernità che è l’eterno presente della Parola,
incarnata nell’azione, nell’andare per il mondo». L’Italia dei Comuni stava generando una sensibilità nuova
ed è all’interno di questa, vivendola appieno ma anche superandola, che
Francesco vive la sua esperienza dilagante [p. 7]. Lo dimostrano l’arte e la poesia, che subito gli danno
spazio, cominciando da Cimabue-Giotto e da Dante. Persino il
linguaggio di Francesco è rivoluzionario: è volto ad annullare gli
antagonismi di una società basata sul potere e la forza delle relazioni
familiari. Dalle fonti emerge la grande diffidenza del Santo verso espressioni
che implicano il predominio o presuppongono uno stato d’inferiorità di talune
persone. Francesco aborrisce parole come maestro
e magnate ma anche superiore e priore. Come anche abate
e abbazia. Lo prescrive nella Regola: «E nessuno sia chiamato
priore, ma tutti siano chiamati semplicemente frati minori. E l’uno lavi i piedi all’altro». Mentre abbazia si
riferisce alle “pertinenze dell’abate”, al “suo” territorio, la parola convento richiama il convenire, lo stare
insieme, il luogo da cui ripartire. Diventano positive parole come fratello, fraternità e minore,
piuttosto che superiore. Negli
scritti di Francesco, ci insegna padre Enzo, la parola più usata è fratello. Il termine per indicare il
responsabile di un gruppo di conventi non è superiore,
ma custode, e il guardiano di un convento è colui che “guarda” l’altro nel senso che
se ne prende cura. In linea con il Vangelo e in perenne ascolto dialogante (mai
scontato!) della parola del Signore, la ribellione
di Francesco è anche quella
della perfetta carità. Il chiostro di Francesco è il mondo e lui rompe con ogni luogo chiuso, con ogni
forma di divisione. Il suo verbo è andare
verso e non aspettare. Sotto
molti aspetti, “rompe” persino con le indicazioni di altri santi come Agostino,
Bernardo, Benedetto. Scrive Giorgio Agamben in un libro dedicato a Francesco
[p. 40] che chi segue la regola non si obbliga, come avviene nel diritto, al
compimento di singoli atti, ma mette in questione il suo modo di vivere, la sua
stessa forma vivendi. Una «forma di
vita», come scrive san Bonaventura. Alla regola si aderisce integralmente:
forma e sostanza sono tutt’uno. Per Francesco, come per Cristo, la legge è la
vita, e viceversa. «Il Signore mi ha detto che questo egli voleva: che io
fossi nel mondo un “novello pazzo”». Un pazzo, sì, ma per annunciare la follia
del Vangelo nelle piazze e, diremmo oggi con il linguaggio del “nostro”
Francesco attuale, nelle periferie del mondo. Naturalmente bisogna intendersi sul significato di questa
follia. Questo è appunto il valore e
il significato del libro, dove i termini follia
e ribellione vengono abbinati a
sinonimi che non risulterebbero neppure nei migliori dizionari: obbedienza, allegria, docilità, mansuetudine. E dove sta lo snodo? Nella
parola del Signore, che ci insegna questa stessa associazione, apparentemente contraddittoria.
Chi segue il Vangelo, come Francesco, l’alter
Christus per eccellenza, è al tempo stesso libero e obbediente, ribelle e docile, folle e appagato. Sono molti i gesti di rottura, più o meno plateali: la
rottura con la mondanità e le feste, l’abbraccio dei lebbrosi, il rifiuto della
mentalità mercantile rappresentata a un certo punto dal padre. Nel rapporto con
il Papato, la rivoluzione di Francesco è il non accontentarsi e l’andare oltre,
anche qui per “andare verso”: è la ricerca appassionata del senso autentico che
il cristianesimo incarnato rischia di smarrire; ma Francesco tradirebbe se
stesso e il suo stesso percorso, se andasse anche contro la Chiesa. Perciò
insiste con il confronto e lo spirito di obbedienza. In realtà, ammonisce
l’autore, Francesco è ribelle contro il suo tempo che sta volgendo verso
l’individualismo e la “società dell’avere”, non contro la Chiesa e neppure
contro la gerarchia. È un Francesco che già da giovanissimo, agiato,
canterino, scanzonato, entra in conflitto interiore e non fa nulla per
mascherarlo; scaccia il mendicante che era entrato nella bottega paterna e poi
si pente e prova acuto rimorso; pratica una prodigalità estrema, impulsiva; con
i lebbrosi si converte, anzi si lascia travolgere, andando dalla ripulsa allo
slancio. Non è certo uno che si maschera o si tira indietro, non è uno che ama
le mezze misure; per lui cavalleria e cortesia non significano ipocrisia, anzi
vengono portate alle estreme conseguenze. È il ragazzo che quando sente parlare
dell’amore di Dio prova un intimo turbamento, un rimescolamento; per lui, pur
essendo colto, non era certo un fatto formale o letterario l’innamoramento e lo
sposalizio con Madonna Povertà. Impugna le armi Francesco, da giovanissimo, pensando di
spendersi per una buona causa, ma anche lì riesce a dar prova del suo
temperamento quando, in carcere, con la sua predisposizione alla gioia riesce a
sciogliere il cuore di «un cavaliere superbo, un caratteraccio insopportabile»,
che tutti cercano di emarginare. La pazienza di Francesco non si spezza e, a
furia di sopportare quell’intrattabile, riesce a ristabilire la pace fra tutti
(lo narra Tommaso da Celano)
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