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  07/01/2017 13:30


Papa Francesco ha ricevuto i terremotati del Centro Italia in Vaticano: «mani e cuore per ripartire», ha detto ai presenti. Testimonianza di don Avenati. Discorso integrale del Papa.



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«Abbiamo sperimentato l’abbraccio paterno di Papa Francesco. È stato un momento di famiglia, emozionante, carico di speranza». Con queste parole l’arcivescovo Renato commenta l’udienza speciale che il Pontefice ha concesso ai terremotati del Centro Italia giovedì 5 gennaio 2017, nell’Aula “Paolo VI” in Vaticano. Dalla nostra Diocesi oltre ottocento persone si sono recate in Vaticano per sentire l’incoraggiamento del Papa, per incrociare il suo sguardo, per stringere le sue mani. E lui, Francesco, non si è sottratto: sia all’ingresso che all’uscita dell’aula ha salutato quante più persone possibile, ha benedetto e baciato i bambini, si è soffermato ad abbracciare i disabili e i loro familiari, ha dato coraggio a quelle persone che a causa del sisma hanno perso i loro cari. Insieme ai terremotati della nostra Diocesi c’erano anche quelli delle Chiese sorelle di Rieti, Camerino-S. Severino Marche, Ascoli Piceno, Macerata-Recanati-Tolentino-Cingoli-Treia, Ancona-Osimo, Senigallia, Fabriano-Matelica. In totale, circa 1500 persone. Diverse le autorità civili nazionali (il Commissario per la ricostruzione Vasco Errani e il capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio) e delle Regioni coinvolte. Dall’Umbria: il Presidente della Giunta Regionale Catiuscia Marini, vari sindaci della Valnerina ad iniziare da quello di Norcia Nicola Alemanno, la sovrintendente Marica Mercalli, il comandate dei Vigili del Fuoco Raffele Ruggiero.L’udienza è iniziata con due testimoniane: dei coniugi Raffele e Iole Testa di Rieti e del “nostro” don Luciano Avenati parroco dell’Abbazia di S. Eutizio in Preci. Poi, c’è stato il saluto del Papa. 

Testimonianza di don Luciano Avenati, parroco dell’Abbazia di S. Eutizio in Preci. Grazie, Santo Padre, per aver desiderato incontrarci e per averci accolti oggi nella Sua casa. Questo luogo mi piace chiamarlo così perché per noi che abbiamo perduto le nostre case, questa parola ha il sapore della nostalgia e insieme quello della speranza nel futuro. Ci sentiamo oggi radunati nella “sala grande” della Sua casa. Grazie. Dopo il grazie mi presento. Sono don Luciano Avenati, prete da quarantatré anni della diocesi di Spoleto-Norcia; sono  parroco della parrocchia dell’Abbazia di S. Eutizio che comprende diciotto paesi in un ampio territorio che va da Norcia a Preci, in Umbria. Sono qui a testimoniare la sofferenza che ha fortemente segnato la gente del territorio in cui vivo, come anche gli altri territori di tutta la zona della Valnerina colpiti dal terremoto. Ma soprattutto voglio testimoniare la fortezza d’animo, il coraggio, la tenacia, e insieme la pazienza, la solidarietà nell’aiuto vicendevole della mia gente. E quindi la fede che trova in questi atteggiamenti l’espressione di una grande umanità. Devo dire dunque che sono orgoglioso della mia gente. E se io sono stato un sostegno per loro, loro sono stati la mia forza. L’amore alla nostra terra ci ha fatto rimanere anche quando ci è stato proposto di vivere l’emergenza altrove. La nostra terra si sarebbe sentita ferita ancora di più, e questa volta non dal terremoto ma da noi. Abbiamo vissuto insieme dormendo in macchina, poi nelle tende, poi nelle roulottes, ed ora qualcuno comincia a sistemarsi in piccole casette. In tutto questo siamo cresciuti nelle relazioni umane e fraterne; sono avvenute alcune riconciliazioni; in una parola abbiamo perso le case ma siamo diventati una grande famiglia. E in questi giorni di Natale ci siamo detti più volte che non dobbiamo sentirlo come il più brutto della nostra vita, ma forse il più vero, quello che ci fa sentire più vicini a Gesù che è nato fuori casa (e noi siamo fuori casa), e che ha piantato la tenda in mezzo a noi (e noi siamo stati e in parte siamo ancora nelle tende). In tutto questo ci siamo sentiti sostenuti, Santo Padre, dalla sua vicinanza, dal suo affetto, dalla sua preghiera, dalla sua visita, dal suo ricordo continuo e dal suo aiuto concreto fatto pervenire anche a noi parroci. Grazie. E voglio qui dare anche testimonianza della grande vicinanza del nostro arcivescovo Renato che continuamente si è fatto presente, si è interessato con grande premura del suo gregge, ha consolato e rincuorato la gente, ha promosso con opportune iniziative l’aiuto alle popolazioni. Mentre ringrazio Lei, Santo Padre, davanti a Lei desidero ringraziare anche lui, il nostro arcivescovo. Personalmente, come anche gli altri parroci della zona, non ho pensato nemmeno una volta di partire. E a chi mi chiedeva se l’avessi fatto, ho risposto sempre che per partire avrei dovuto pensarci cinquanta volte e poi restare, e che per restare non ho avuto mai bisogno di pensarci: il pastore non lascia mai le sue pecore, soprattutto se sono stanche, smarrite e ferite. Santo Padre, preghi per noi ancora perché siamo forti e determinati nel ricostruire le nostre case e le nostre chiese (le abbiamo perse tutte e con esse quasi mille anni di storia); preghi perché siano impastate di sicurezza, di fede e di amore vicendevole. E in tutto questo quanti a livello pubblico sono preposti alla ricostruzione siano rapidi, onesti, preoccupati unicamente del bene della gente. In questo compito che mobilita tutti, sappiamo, Santo Padre, che la cosa più importante è ricostruire il tessuto sociale e umano e ricostruire la comunità ecclesiale. A questo proposito mi piace ricordare, in questo luogo che porta il suo nome, una parola cara al papa Paolo VI, parola che mi ha accompagnato fin dagli inizi nel mio ministero: “Ogni  generazione è chiamata a ricostruire la Chiesa nel suo tempo”.  Vogliamo farlo insieme con Lei, Santo Padre, che ci mostra continuamente quanto Le stia a cuore il rinnovamento della Chiesa. Molti secoli fa un Papa sognò un umbro, di cui Lei porta il nome, un piccolo frate, che sorreggeva la basilica del Laterano perché non crollasse. Noi umbri vogliamo sognare - e se i sogni sono belli e veri diventano realtà - che un Papa, venuto dalla fine del mondo, insieme con noi e noi insieme con lui, ricostruisca la Chiesa per renderla aperta al mondo e accogliente verso tutti. Un grande, esaltante ed urgente lavoro attende Lei e noi tutti. Vogliamo fare la nostra parte, anche se molto più piccola della sua, ma comunque importante. E non vogliamo tirarci indietro. Grazie, Santo Padre, per essere il nostro Papa. Invochi per noi la benedizione del Signore perché non smettiamo di sognare per il nostro territorio e per tutta la Chiesa una nuova fioritura.

Discorso del Santo Padre. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Io ho scritto qui le due testimonianze che abbiamo ascoltato, e ho sottolineato qualche espressione, qualche parola, che mi ha toccato il cuore, e di questo voglio parlare.Una parola che è stata come un ritornello, quella del ricostruire. Quello che Raffaele ha detto molto concisamente e molto forte: “Ricostruire i cuori ancor prima delle case”. Ricostruire i cuori. “Ricostruire – ha detto Don Luciano – il tessuto sociale e umano della comunità ecclesiale”. Ri-costruire. Mi viene in mente quell’uomo che ho trovato, non ricordo in quale dei paesi che ho visitato in quella giornata [quando si è recato nei luoghi terremotati, il 4 ottobre 2016], ha detto: “Per la terza volta incomincerò a costruire la mia casa”. Ricominciare, non lasciarsi andare – “ho perso tutto” –, amareggiare… Il dolore è grande! E ricostruire col dolore… Le ferite del cuore ci sono! Ma c’è la parola che abbiamo sentito oggi da Raffaele: ricostruire i cuori, che non è “domani sarà meglio”, non è ottimismo, no, non c’è posto per l’ottimismo qui: sì per la speranza, ma non per l’ottimismo. L’ottimismo è un atteggiamento che serve un po’ in un momento, ti porta avanti, ma non ha sostanza. Oggi serve la speranza, per ricostruire, e questo si fa con le mani, un’altra parola che mi ha toccato. Raffaele ha parlato delle “mani”: il primo abbraccio con le mani a sua moglie; poi quando prende i bambini per tirarli fuori dalla casa: le mani. Quelle mani che aiutano i famigliari a liberarsi dai calcinacci; quella mano che lascia il suo figlio in braccio, nelle mani di non so chi per andare ad aiutare un altro. “Poi c’era la mano di qualcuno che mi ha guidato”, ha detto. Le mani. Ricostruire, e per ricostruire ci vogliono il cuore e le mani, le nostre mani, le mani di tutti. Quelle mani con le quali noi diciamo che Dio, come un artigiano, ha fatto il mondo. Le mani che guariscono. A me piace, agli infermieri, ai medici, benedire le mani, perché servono per guarire. Le mani di tanta gente che ha aiutato a uscire da questo incubo, da questo dolore; le mani dei Vigili del Fuoco, tanto bravi, tanto bravi... E le mani di tutti quelli che hanno detto: “No, io do del mio, do il meglio”. E la mano di Dio alla domanda “perché?” – ma sono domande che non hanno risposta, la cosa è andata così.Un’altra parola che è uscita è la ferita, ferire: “Noi siamo rimasti lì per non ferire di più la nostra terra”, ha detto il parroco. Bello. Non ferire di più quello che è ferito. E non ferire con parole vuote, tante volte, o con notizie che non hanno il rispetto, che non hanno la tenerezza davanti al dolore. Non ferire. Ognuno ha sofferto qualcosa. Alcuni hanno perso tanto, non so, la casa, anche i figli o i genitori, quel coniuge… Ma non ferire. Il silenzio, le carezze, la tenerezza del cuore ci aiuta a non ferire. E poi si fanno miracoli nel momento del dolore: “Ci sono state riconciliazioni”, ha detto il parroco. Si lasciano da parte antiche storie e ci ritroviamo insieme in un’altra situazione. Ritrovarsi: col bacio, con l’abbraccio, con l’aiuto mutuo…, anche con il pianto. Piangere da soli fa bene, è un’espressione davanti a noi stessi e a Dio; ma piangere insieme è meglio, ci ritroviamo piangendo insieme. Queste sono le cose che mi sono venute al cuore quando ho letto e sentito queste testimonianze. Un’altra frase, detta anch’essa da Raffaele: “Oggi la nostra vita non è la stessa. È vero, siamo usciti salvi, ma abbiamo perso”. Salvi, ma sconfitti. È una cosa nuova questa strada di vita. La ferita si guarisce, le ferite guariranno, ma le cicatrici rimarranno per tutta la vita, e saranno un ricordo di questo momento di dolore; sarà una vita con una cicatrice in più. Non è la stessa di prima. Sì, c’è la fortuna di essere usciti vivi, ma non è lo stesso di prima.Poi, Don Luciano ha fatto accenno alle virtù, alle virtù vostre: “Voglio testimoniare – ha detto – la fortezza d’animo, il coraggio, la tenacia e insieme la pazienza, la solidarietà nell’aiuto vicendevole della mia gente”. E questo si chiama essere “ben nati”, non so se in italiano si usa questo [modo di dire], in spagnolo si usa “bien nacido”, nato bene, una persona che è nata bene. E lui, come pastore, dice: “Sono orgoglioso della mia gente”. Anch’io devo dire che sono orgoglioso dei parroci che non hanno lasciato la terra, e questo è buono: avere pastori che quando vedono il lupo non fuggono. Abbiamo perso, sì, abbiamo perso tante cose: casa, famiglie, ma siamo diventati una grande famiglia in un altro modo. E c’è un’altra parola che è stata detta due volte soltanto, un po’ di passaggio, ma era un po’ il nocciolo di queste due testimonianze: vicinanza. “Siamo stati vicini e rimaniamo vicini l’uno all’altro”. E la vicinanza ci fa più umani, più persone di bene, più coraggiosi. Una cosa è andare soli, sulla strada della vita, e una cosa è andare per mano con l’altro, vicino all’altro. E questa vicinanza voi l’avete sperimentata. E poi un’altra parola che si è perduta nel discorso, ricominciare, senza perdere la capacità di sognare, sognare il riprendersi, avere il coraggio di sognare una volta in più. E vi dico una cosa: quando mi sono accorto di quello che era accaduto quella mattina, appena svegliato ho trovato un biglietto dove si parlava delle due scosse; due cose ho sentito: ci devo andare, ci devo andare; e poi ho sentito dolore, molto dolore. E con questo dolore sono andato a celebrare la Messa quel giorno.Grazie per essere venuti oggi e in alcune udienze di questi mesi. Grazie per tutto quello che voi avete fatto per aiutarci, per costruire, ricostruire i cuori, le case, il tessuto sociale; anche per ricostruire [riparare] col vostro esempio l’egoismo che è nel nostro cuore che non abbiamo sofferto questo. Grazie tante a voi. E sono vicino a voi.




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